Arte e cultura
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Antonio Milj
ANTONIO MILJ
il "Vasari" di San Gemini


Da Franca Giffoni Mosca, "L'ANTICA CITTA' DI CARSOLI IN CASVENTINO ORA S. GEMINO", Edizioni Thyrus

Egidio Antonio Milj, l'autore del presente libro, nacque a San Gemini nel 1728 e morì a Piedicolle nel 1814. Fattosi frate cappuccino, prese il nome di Antonio da San Gemine e durante la sua lunga vita ricoprì importanti incarichi nel suo Ordine: nel 1759, nel 1760 e nel 1770 fu padre guardiano nel convento di Terni, nel 1771 lo fu a Portaria, nel 1774 a S. Croce di Narni e nel 1778 ad Amelia.
In tutti questi luoghi egli ebbe la possibilità di soddisfare la sua vocazione non solo di religioso ma soprattutto di studioso. Negli archivi, nelle polverose biblioteche scovò documenti, bolle, atti processuali, tutta una serie di importanti notizie che dovettero illuminarlo sulla vita dei secoli passati e indurlo a compilare una storia, incentrata sì su Sangemini ma non ignara di quella dei paesi più vicini e più lontani che in qualche modo con essa interferirono. Da tutto ciò e' venuta fuori un'opera, divisa in due volumi, il primo dei quali "Carsoli rediviva", fu dato alle stampe nel 1800, il secondo, "Porzione e residuo della medesima opera, divisa in sette lezioni", rimase in forma di manoscritto per oltre due secoli, noto solo a un esiguo numero di studiosi, ed e' grazie all'interessamento degli attuali Amministratori comunali se esso oggi e' stato finalmente trascritto in caratteri di stampa, coronando quella che fu la legittima aspettativa dell'autore che, insoddisfatto, concludeva con queste parole il suo primo libro:

"A proseguimento della materia ne avevo già formate e distese a parte sette lezioni, incominciando dal 1200 al 1700, in cui far noto quanto di più singolare era in questo tempo in essa avvenuto, giacche' per quello che concerne i secoli oscuri precedenti, ne n'e' parlato nelle passate lezioni. Ma gli avvenimenti, troppo a dir vero funesti di questi nostri giorni, ci hanno come impossibilitati di dare le dette sette lezioni per ora alle stampe e non potuto appagare del tutto perciò il benigno lettore".

I tempi funesti erano quelli dell'impresa napoleonica in Italia, 1796-97, tempo in cui s'arresta anche l'opera dell'autore che ci informa che a quella data essa era stata del tutto completata e si duole soltanto che non abbia la veste adatta per essere presentata ai lettori. Un riconoscimento dovuto a un lavoro faticoso, appassionato, teso a recuperare a Sangemini più di due millenni di storia, un passato sofferto ma glorioso che la solleva sul circondario di nascita più recente. Un concetto questo che egli ha ben chiaro in mente e che ripetutamente esprime: la nobiltà di un popolo parte dall'antichità delle sue origini, ne garantisce la cultura, la maturità dei rapporti civili originati dall'esperienza, la capacità di sopravvivenza ravvivata da una forza continua di rinascita, da una voglia costantemente ripetuta di affermazione e conoscenza. Questo e' quanto può vantare San Gemini, una piccola cittadina dell'Umbria meridionale, preesistente e coesistente alla vicinissima e ben più nota Carsulae, da cui, quando l'Impero Romano decadde per le invasioni barbariche, corsero gli abitanti in cerca di rifugio.

Situata su un colle, vivace, operosa, attiva, stretta dai resti della cinta muraria imponente, conserva ancora gelosamente i simboli del suo glorioso passato: le chiese belle e severe in cui le moltitudini, nel corso delle generazioni, pregarono, le strade serpeggianti coronate da archi, su cui si affacciano i portoni delle botteghe e delle abitazioni private, i vicoli che si concludono sulla cerchia muraria davanti allo scenario del panorama campestre, l'imponente palazzo del vecchio Comune, sede di consessi, di pubbliche riunioni, in cui le decisioni erano frutto di responsabilità collettiva, di coscienza civica, di orgoglio della propria autonomia. Di fuori e d'intorno la campagna stupenda, educata dalla mano dell'uomo, ricca di oliveti e vigneti, delimitati da corsi d'acqua e boschi. Un paesaggio intatto quale è dipinto nel laudo del 1429 da Giovanni da Capestrano e Matteo da Bologna, in cui la linea di confine tra Narni e San Gemini si snoda tra campi, querce, olmi, termini costituiti da pietre, alberi segnati da croci e fossatelli dove liberamente andava il bestiame di entrambi i paesi a dissetarsi.
La nobiltà di questo sito, di questo castello appodiato, è di gran lunga superiore a quella dei centri vicini, di cui fu capitale, sede di Gastaldo regio. Da soli quattro secoli essi acquistarono la capacità di reggersi autonomamente, di governarsi. Un tempo relativamente breve se paragonato a quello che sta alle spalle di San Gemini e che il Milj esibisce nel suo lavoro di ricercatore scrupoloso di notizie, di documenti.

Il libro tuttavia ha un tono composto, si accende solo per narrare i contrasti con i paesi vicini, per il possesso del diruto castello di Poggio Azzuano o del territorio del Castiglione. Porge i fatti in maniera cauta e si astiene dai giudizi, che rimanda al lettore. Tutta l'opera sembra risentire di questa impostazione sia nella forma letteraria, spesso involuta, rallentata da continue pause come di chi, conoscendo il potere delle parole, ne diffidi, sia nello scegliere e nel commentare gli avvenimenti. E quella di uno studioso ma anche di un ecclesiastico che, prima di pubblicare, sa di doversi sottoporre al giudizio delle autorità, per cui l'operato della Chiesa temporale ne esce in ogni caso legittimato. Ma spesso l'esigenza di verità prende la mano al religioso, così che le notizie arrivano a noi spoglie di orpelli deformanti, autentiche: i fratelli di Bonifacio IX, i Tomacelli, erano avidi di potere, impietosi verso le popolazioni, incuranti dei loro diritti faticosamente conquistati nel corso dei secoli anche con la costante fedeltà dimostrata ai pontefici. Alessandro VI era così "dominato dall'affetto dei suoi figlioli, dati all'ambizione e alla sfrenatezza", da posporre a essi la Chiesa. Bartolomeo Cesi, "vescovo di assai cattiva morale che con mezzi empi ed iniqui ottenuta avea la cattedra", dilapidò i beni dell'abbazia di S. Nicolò, al cui governo era preposto, recando grave danno e pregiudizio alla comunità di San Gemini. Romolo Cesi, anch'esso vescovo di Narni, in epoca di poco posteriore, oltre ai molti altri difetti che il Milj in gran parte omette, aveva anche quello dell'avarizia: le sue concessioni alle povere suore del monastero di S. Maria Maddalena erano solo apparenti e tese a prendere più che a dare; i preti e l'arciprete e i canonici di S. Giovanni Battista per la loro vita rilassata si erano resi odiosi e spregevoli al popolo. Ma a parte le numerose manchevolezze, comuni anche ad altri potenti, la Chiesa, in un'epoca di così grandi incertezze, non poteva essere rappresentata che come l'unico punto sicuro di riferimento per le popolazioni stremate dalle invasioni degli eserciti stranieri, dalle malattie e dalla fame, e di San Gemini sovente è menzionato il ricorso che a essa fa per ottenere giustizia contro le prepotenze dei tiranni e delle città più forti.

Una morale binaria appare tuttavia riservata ai potenti e agli umili: guerre, tradimenti, delitti, sono connaturati ai primi e come tali considerati, mali inevitabili, da sopportare con pazienza, senza scompaginare l'ordinamento sociale basato sull'obbedienza e sulla fedeltà verso i superiori. Ma ai secondi, ai quali è affidata la tutela della patria, la morale civile impone la concordia, la solidarietà interna, lo spirito di sacrificio, l'osservanza delle leggi, strumenti in grado di rendere una città, uno stato, forti e rispettati. Nessuna loro colpa può essere considerata con maggiore severità di quella dell'anarchia, della frantumazione interna che indeboliscono la patria e ne pregiudicano irrimediabilmente lo stato di salute. Il mal comportamento dei potenti era arginabile. Spesso l'alternanza delle vicende umane li innalzava per poi farli precipitare rapidamente in basso. Una specie di nemesi storica sembrava perseguitarli: il Valentino, Altobello Chiaravalli, il prefetto di Vico, Federico II e i suoi figli, Corrado Trinci e la sua famiglia, il cardinale Vitelleschi, Braccio Fortebraccio da Montone... una serie paradigmatica di grandi personaggi a testimoniare che l'unica certezza delle sorti umane è l'incertezza. Ma la patria, sito comune a un popolo, a esso è affidata, al suo senso di responsabilità, alla sua capacità di tutelarla con costumi severi e virtuosi, con leggi giuste e durature. Il Milj, basandosi su documenti, ritenuti minori, che riportano notizie che vanno dal costo dei viveri, alle sentenze del tribunale per piccoli reati, alle sedute comunali, alla lista rigorosa dei regali e delle spese sostenute dalla comunità per interesse pubblici..., ricostruisce aspetti della vita di San Gemini, riportandoci molto indietro, per certi versi al tempo della Firenze predantesca, in cui la gente viveva entro la cerchia delle mura antiche, senza lussi "né catenelle né corone", e non v'eran "case di famiglia vote".
Invece vari secoli erano trascorsi ma i costumi sobri e severi avevano subito scarsi mutamenti.
Abitavano nel paese "... uomini, dotti e virtuosi, amanti della patria, del bene comune e d'una commendabile economia... non sordidi per effetto di avarizia e non prodighi scialacquatori dei patrimoni, amici dell'indigente, del povero, del patriota, non amanti del gioco e del lusso e inimici dell'inganno, della doppiezza e della frode ma leali all'opposto e sinceri... Senza punto dispendiare o aggravare la casa, per nulla curanti delle mode, allora poco in uso... Quantunque carichi talvolta chi di sei, chi di otto e chi di dodici figlioli pur tuttavia ben educati e ben disciplinati nel conoscimento di Dio e nell'osservanza della Sua legge...".
Una rappresentazione idilliaca, quasi statica, che si anima di toni drammatici quando parla dei malati di lebbra e del loro ricovero coatto o delle devastazioni apportate dai lanzichenecchi. In questo caso l'azione si sposta di pochi chilometri, a Narni, che fu la città che, per aver tentato di resistere agli invasori, subì i peggiori trattamenti: "... Avendo dato un generale assalto alle mura della città, finalmente vi entrarono a viva forza e tutta la corsero con molta effusione di sangue dei poveri cittadini, dei quali, quanti poterono averne nelle mani, tanti ne uccisero, violando ancora molte vergini e maritate...". Poi torna di nuovo a San Gemini e negli altri centri dell'Umbria che i lanzichenecchi parimenti saccheggiarono. Descrive la tragedia delle popolazioni, devastate prima dagli eserciti mercenari e poi dalla peste e dalla fame. Lo stile si eleva, si fa incalzante, denso di umana pietà. Non c'era grano e quello che "si faceva venire dai porti di mare era di così pessima qualità che paneggiato e mangiato, cagionava orribili crucj in modo che non altro udivasi giorno e notte nelle strade che urli e grida spaventose di povera gente che chiedeva misericordia, cadendo poi per terra morta. Nel rimanente il cibo ordinario era pane di semola, di ghiande, di occhi di canne, di gramigna, di ticchi di uva e di altre erbacce. Oltre di che furono mangiati cavalli, asini, cani e gatti e altri animali schifosissimi, intanto che nella casa di un povero villano di Montecastrilli furono trovate sul fuoco due pignatte pieni di sorci...".

In questo modo si dipana il libro del Milj, abile nel trattare la grande e la piccola storia, i temi del nostro Medioevo, Comuni, Signorie, compagnie di ventura, papato e impero, riconducendo il tutto a San Gemini: un microcosmo in cui essi si riflettono.
Ed è questa un po' la caratteristica degli storici locali che con le loro ricerche capillari, minuziose, sono stati in grado di rendere familiari e vicini personaggi famosi e lontani. Federico II stette per quattr ' anni a Terni e a Spoleto, re Enzio si acquartierò a San Gemini. I papi e gli imperatori, nei loro viaggi, si fermavano spesso in casa nostra, lisciandovi i segni del loro passaggio: Pio II Piccolomini passò una notte nel convento dei frati cappuccini di Stroncone ai quali lasciò in dono "una pianeta fatta di ossi di pesce". Niccolò V antipapa e Ludovico il Bavaro scapparono da Todi, con l'argenteria. In entrambi i casi e per motivi diversi di questi oggetti non c'è più traccia eccetto che nelle parole dello storico che ce li restituiscono intatti e meglio conservati che in una teca ben sigillata.
Per questa magia che è propria della parola rivive tutta una folla di personaggi collocati in situazioni ben determinate della vita associata, versioni diverse di quello stesso tema che è l'umanità: sono notabili di paese, consiglieri comunali, sindaci, procuratori, podestà. Sorgono in pedes, prendono la parola, esaminano i problemi a ano a uno, suggeriscono, propongono ai voti. Un rituale di vita civica, della cui validità fa fede la durata, si ripropone a noi come premessa di quello che attualmente si celebra nelle nostre assemblee democratiche. Tutto è immutato: uguale è la struttura antropologica degli uomini e delle donne, senza tempo le caratterizzazioni, come maschere da indossare per salire sul palcoscenico della vita. Quello che cambia è lo spazio a disposizione: quello dell'uomo medievale era molto limitato. Appena fuori delle mura stavano i nemici e all'interno la lotta delle fazioni riduceva ulteriormente quello abitativo. Le case erano costruite con alte torri di vedetta e dintorno e sulle strade erano poste delle grosse catene a scopo difensivo.
Ma, d'altra parte, se questa frantumazione del territorio insieme alla rivalità e all'esasperato campanilismo furono d'ostacolo alla formazione di ampie coalizioni e motivo di debolezza di fronte alla straniero, tuttavia promossero la diffusione capillare della cultura e dell'arte in un'infinità di città, di paesi, di borghi, addirittura di piccoli centri in gara tra loro nell'emularsi e nel superarsi, conferendo una connotazione originale alla carta geografica della nostra penisola, contrassegnata da opere d'arte di straordinaria bellezza, così che potremmo dire che se la politica ci rese divisi, fu l'amore per l'arte a renderci uniti, a uniformare dal nord al sud il nostro paese.
Quando il Milj scrisse il suo libro s'era ormai alle soglie dell'800, gli effetti della rivoluzione francese si stavano facendo sentire anche da noi: egli li considerò come una degradazione e cercò di contrastarli con il ricordo dei valori del passato. Invano perché il libro rimase chiuso nel cassetto, lasciando ai posteri il giudizio su quanto stava avvenendo. E solo dopo due secoli esso è arrivato finalmente a noi, come un messaggio che giunge da lontano dal profondo Medioevo e oltre, criptico, pieno di mistero: che suggerisce, non definisce. Ed è proprio questa la peculiarità che lo contraddistingue: essere un libro di ardua lettura, ricco di spunti e di reticenze ma stimolante, attivo, nell'accezione moderna del termine, che coinvolge il lettore a saperne di più, ad approfondire, a cercare altre notizie. Terapeutico, in un certo senso: destinato a quanti, avendo perduto la memoria, desiderino riacquistarla.
Per questo nel trascriverlo l'abbiamo rispettato fedelmente senza nulla alterare della sintassi e dell'ortografia, compresi gli infiniti punti e virgole, pause necessarie in un discorso così meditato, documenti anch'essi di un'epoca, d'un modo di comunicare. Tuttavia per facilitare la lettura abbiamo aggiunto delle note a latere e altre, durante e in fondo alle lezioni, non esaustive ma puramente di aiuto nel chiarire alcune informazioni e nel delineare per sommi capi i personaggi, alcuni dei quali, i minori, molto difficili da reperire.
Il libro è diviso in sette lezioni con un'appendice di un congruo numero di documenti e diplomi rilasciati dalle autorità: brevi pontifici, ingiunzioni, patenti di podestà e di cancelliere, laudi, richieste di rappresaglie e di tasse... a supporto di quanto in precedenza scritto. E infine un elenco con i nomi di coloro che hanno dato lustro a San Gemini, come podestà, vescovi, condottieri, conti palatini.

La prima lezione parte dall' origine remota di Casventum e dalla mutazione del suo nome in Sangemino e come essa divenisse sede di Gastaldo regio e capitale delle Terrarnolfe. Si salta poi al 1200, secolo che vide le lotte frontali tra Innocenzo III e Federico II. In questo contesto s'inseriscono notizie interessanti sulla vita del Comune di San Gemini e sulla sua struttura politico-amministrativa. Si parla della permanenza dell'Imperatore a Terni e a Spoleto e del tentativo, peraltro fallito, di formare una lega umbra contro di lui. Alcuni centri abbandonati dell'Umbria e del Lazio, ritenuti di grande importanza strategica, risorgono a opera di Federico II.

La seconda lezione abbraccia la prima metà del secolo XIV, incentrata sulle lotte tra guelfi e ghibellini e sulle disgrazie che esse recarono alle popolazioni umbre. Segue la venuta di Ludovico il Bavaro e di Rainalduccio da Corbara, antipapa col nome di Niccolò V, entrambi colpiti da scomunica, insieme alla città di Todi che li aveva accolti con entusiasmo.

La terza lezione riguarda la metà successiva del secolo XIV. È densa di avvenimenti inerenti all' assenza dei Papi da Roma, con la ribellione delle città italiane alla Chiesa e l'impresa di riconquista del cardinale Albornotz. La sorte delle armi è spesso decisa dalle Compagnie di ventura al comando di condottieri famosi come Giovanni Hawkood, detto Acuto, o Giovanni di Montreal, detto fra Moriale, che per soldi trasformano la penisola in un campo di battaglia. Due eventi drammatici illuminano la scena: la punizione inflitta agli abitanti di Piediluco per l'uccisione di Blasco, nipote del cardinale Albornotz, e la crudeltà delle truppe mercenarie bretoni verso i prigionieri folignati, allo scopo di sollecitarne il riscatto. Nella narrazione sono inserite notizie sugli usi e i costumi sangeminesi.

La quarta lezione comprende un tempo assai ridotto: va dal 1400 al 1425 ma è piena di vicende interessanti che per lo più riguardano il territorio comunale. V'è il tradimento dell'accordo sui confini tra un proprietario di San Gemini e uno di Cesi, con l'uccisione di quest'ultimo; la vergogna per la parola mancata e la ricerca del colpevole con la sua immagine infissa alle porte della città; lo scossone dato alla consuetudine dall'arrivo degli Ebrei con il loro banco dei pegni; le richieste sempre più pressanti dei Tomacelli, fratelli del Papa, e gli sforzi di tutti i cittadini per resistervi e difendere le libertà del Comune. Vi è inserita la morte di Bonifacio IX con il contraccolpo sulla sua famiglia che passa da un potere illimitato alla prigione. Segue l'avventura romana e umbra di Braccio Fortebraccio da Montone e l'elezione a papa di Martino V Colonna.

Nella quinta Lezione, che include il periodo che va dal 1425 al 1486, gli avvenimenti interni ed esterni a San Gemini si alternano parimenti, il laudo sui confini con Narni di Giovanni da Capistrano e Matteo da Bologna, la richiesta di una nobildonna che. in contrasto con le norme in vigore, riesce a ottenere legalmente la tutela delle ripoti orfane, la costruzione di un lebbrosario unico per tutti i malati della zona con il tentativo di un privato di alienarlo al Comune, lasciano il posto alle imprese belliche di Niccolò della Stella, nipote di Braccio Fortebraccio, di Francesco Sforza, del Piccinino e del cardinale Vitelleschi. Intanto sappiamo che a Sangemini v'era un uomo di forza erculea, capace di azioni straordinarie come trasportare contemporaneamente tre barili pieni di vino o, con un asino in spalla, salire le scale del palazzo dei Priori di Todi. C'imbattiamo quindi in tre concessioni pontificie che incorporano il castello di Poggio Azzuano a San Gemini.

La sesta Lezione occupa un arco di tempo che va dal 1486 al 1530. Vi si tratta -acquedotto di San Gemini, della visita di Bernardino da Siena e della sua infervorata predicazione. È delincato il quadro dell'illegalità diffusa ai tempi di Alessandro VI della mancanza di sicurezza nelle strade e dei tentativi di alleanza con la città di Temi. Si sentono i primi rombi dei cannoni a Castel dell'Aquila e ad Acquasparta ed è tramandata la truce storia dell'uccisione di Altobello Chiaravaìli e dello scempio pubblico del suo cadavere. Viene riportato un documento, conservato in Vaticano, che informa delle riprovevoli gesta di alcuni fuorusciti sangeminesi, coadiuvati dai narnesi. È un anticipo di quello che accadrà di lì a poco con l'arrivo dei lanzichenecchi che mettono a ferro e fuoco Roma e molte altre città, comprese San Gemini, Narni e Terni. Dopo la guerra, peste e fame.

Segue la settima lezione, la più lunga: dal 1530 giunge addirittura al 1800. San Gemini è infeudata ai fratelli Orsini. Viene stilato un patto in grado di conciliare le esigenze centralistiche dei Signori con le richieste di partecipazione al governo dei
rappresentanti del popolo. Si ripresenta la questione del diruto castello di Poggio Azzuano. Vengono effettuati lavori stradali di pubblica utilità c si aggiusta il percorso della via Flaminia. È lodato il buon governo degli Orsini e i suoi effetti sulla vita di San Gemini che si ripopola e rifiorisce nel traffico, nella cultura e nelle arti e mestieri. I ritrovamenti fortuiti di sante immagini fanno parlare di miracoli.
Nel 1722 gli eredi Orsini cedono il feudo al principe Scipione di Santacroce, al cui erede, don Luigi, il Milj dedica la sua opera, ma inizia anche un processo di trasformazione della vita di San Gemini, meno interessata al Poggio Azzuano e più a Terni, alla città della pianura, con la quale intesse alleanze tese a dare sicurezza alle strade per avviare pacifici commerci anche con città molto più lontane.
I confini non hanno più ragioni di esistere. È veramente iniziata l'era moderna.


Franca Giffoni Mosca



Franca Giffoni Mosca, L'ANTICA CITTA' DI CARSOLI IN CASVENTINO ORA S. GEMINO, Arrone, Edizioni Thyrus, 2006

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